Effetti iatrogeni della formazione degli psicoterapeuti

Effetti iatrogeni della formazione degli psicoterapeuti

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Imago di gruppo Scissa e gioco psicologico tra didatta/terapeuta e allievo/paziente

Abstract
This work aims to show how the iatrogenicity of the training of therapists is the effect of a leadership that, having not adequately elaborated its archaic narcissistic needs, results in a “split group imago” which, projected onto the group, produces the phenomenon of the scapegoat: a specific psychological game signaling the developmental block of the group. The concepts of psychological game, enactment and setting violation will be used to describe how transference phenomena, when not elaborated, are acted out. I will describe both a particular type of psychological game, from the psychodynamic literature on the educational setting, and a clinical case highlighting how the assumption of the dual role of teacher / therapist has iatrogenic effects.

Il presente lavoro ha l’obiettivo di mostrare in che modo la iatrogenicità della formazione dei terapeuti sia l’effetto di una leadership gestita da un didatta il quale, non avendo elaborato adeguatamente i propri arcaici bisogni narcisistici, detiene una “imago di gruppo scissa” che, proiettata sul gruppo, produce il fenomeno del capro espiatorio. Mostrerò in che modo tale leadership, nell’assumere il doppio ruolo didatta/terapeuta, possa produrre effetti iatrogeni, a tal fine descriverò sia un particolare tipo di gioco psicologico formativo tratto dalla letteratura psicodinamica sia uno specifico caso clinico tratto dalla mia esperienza professionale. Mi preme sottolineare che il termine iatrogeno è qui utilizzato in senso lato ad indicare come l’attività formativa anziché far evolvere l’allievo colluda, invece, con il suo copione psicologico rinforzandolo. I concetti di gioco psicologico, enactement, transfert/controtransfert e violazione del setting saranno utilizzati per descrivere come i fenomeni transferali, quando non elaborati, sono agiti.

1. Il paradosso della formazione: tra violazione del setting ed effetti iatrogeni.

“…stando sulla piccola isola dell’intelletto, molti di noi tentano di capire il mare della vita, ma al massimo possono capire solo i relitti galleggianti, la flora e la fauna che sono gettati sulle spiagge. Usare un microscopio verbale o meccanico per osservare ciò che troviamo non ci aiuterà molto a sapere ciò che c’è oltre l’orizzonte o nel profondo. Perciò dobbiamo nuotare ed immergerci, anche se la prospettiva ci sgomenta.” (Eric Berne, 1992, pag.38)

È a partire dall’analisi dei vissuti e degli esiti della mia formazione, dal confronto teorico/tecnico con i colleghi, nonché della mia esperienza professionale di psicoterapia con colleghi, che il presente lavoro prende avvio, conducendo alla conclusione che il processo formativo degli psicoterapeuti sembra avere una probabilità di essere iatrogeno, cioè può peggiorare le condizioni psicologiche degli allievi mostrando così la propria paradossalità. Come nelle fiabe, colui che ci sembrava essere il mago, o la fatina, in verità si rivela essere l’orco, o la strega, così nell’esperienza formativa l’allievo potrebbe ritrovarsi come il Bambino deluso dal Genitore che non ha mantenuto la parola data.

Utilizzando i termini dell’AT, è come se il didatta, a livello sociale, A-A, dicesse all’allievo che va bene così com’è, mentre a livello psicologico, G-B, gli comunica che se non avrà realizzato le attese del Genitore non sarà riconosciuto. All’interno del processo formativo questa dinamica si traduce, sia dal punto di vista terapeutico che dal punto di vista didattico, nel sentirsi inadeguati per non aver soddisfatto le attese del didatta/terapeuta. Il Bambino, molto probabilmente, tradurrà questo messaggio in “tu non vai bene” o “tu vai bene se”, sentendosi non ok, e si vedrà quindi costretto secondo copione ad attivare le proprie strategie difensive per recuperare l’okness. Il doppio messaggio, A-A e G-B, sappiamo essere un requisito per l’avvio di un gioco psicologico, che potrebbe determinare, se non rilevato ed elaborato, l’esito iatrogeno della formazione. Per l’enciclopedia Treccani iatrogeno è: “…detto di malattia, lesione o danno funzionale attribuibile, in via diretta o indiretta, a intervento terapeutico, o anche preventivo o diagnostico, del medico…” (1)

In ambito psicoanalitico il tema della iatrogenicità della formazione dei terapeuti è stato affrontato sottolineando come il fenomeno che sembra determinarla sia la violazione del setting, e specificatamente il setting formativo e/o terapeutico (Kernberg O. F., 2018). Violare il setting significa violare le regole su cui esso si fonda e implica la rottura della sua cornice simbolica: i soggetti anziché pensare su ciò che accade, agiscono inconsapevolmente i propri drammi copionali. Qui di seguito alcuni esempi di violazioni del setting terapeutico e formativo.

1. Violazioni del setting terapeutico.

Il terapeuta:

  • trasforma il setting in uno spazio riservato all’elogio di sé o ad i propri interessi (lo spazio terapeutico dovrebbe essere riservato al solo paziente), dunque telefona, fuma, etc., non prestando attenzione al paziente;
  • mantiene il paziente in una condizione di dipendenza (le celebri ‘terapie infinite’);
  • non mantiene il segreto professionale, ad esempio, rivela informazioni sul percorso terapeutico dell’allievo/paziente ai didatti della scuola di formazione;
  • effettua interventi di psicoterapia individuale con persone che hanno tra loro una relazione significativa;
  • prende in carico persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative;
  • ha rapporti sessuali con il/la paziente; in una relazione asimmetrica, intrattenere rapporti di natura sessuale con un/una paziente equivale ad un vero e proprio abuso (Gabbard, 2017).
2. Violazione del setting formativo.

Il Didatta:

  • condiziona i progetti professionali del paziente/allievo perché in contrasto con i propri, ad esempio allude ad una futura collaborazione professionale;
  • svolge, con la stessa persona, sia il ruolo di terapeuta che di didatta, assumendo così un doppio ruolo che, è stato osservato, produce una evidente dinamica di P/V a causa della implicita, e a volte anche esplicita, dimensione valutativa. Il setting terapeutico è il luogo nel quale la valutazione dovrebbe essere estranea. Ciononostante, esistono contesti nei quali questo ruolo può essere gestito in chiave positiva; ne viene comunque sconsigliato l’utilizzo come regola generale (Cornell, 1994);
  • non esplicita chiaramente i criteri di valutazione, privando l’allievo di un criterio oggettivo con il quale confrontarsi e impedendogli così un ruolo attivo nel suo processo di apprendimento. Questo comportamento, come osservato in ambito psicoanalitico (Kernberg, 2018), favorisce l’iperadattamento dell’allievo e l’idealizzazione del leader funzionale al mantenimento del ruolo di didatta. Concretamente ciò si traduce nel ritardare la carriera degli allievi e ottenere così sia una sicurezza economica che un rifornimento narcisistico. Gli allievi sono bloccati nel loro processo evolutivo essendo scoraggiati nell’acquisire un atteggiamento di curiosa ricerca, di scambio e di approfondimento del sapere psicoterapeutico;
  • colludendo con il copione dell’allievo, intacca la sua consapevolezza rendendolo vulnerabile e producendo danni sia nella costruzione della sua identità professionale sia nella sua vita professionale (Novellino, 2017).

In letteratura è stato osservato che le violazioni del setting avvengono da parte dei didatti/terapeuti che palesano la presenza di evidenti disturbi di identità (Strean, 1993). Novellino (2012) ha evidenziato come le violazioni di setting siano da considerare dei veri e propri abusi che rappresentano un errore etico ma, in quanto psicoterapeuti, questi rappresentano anche un errore tecnico: “Se uno psicoterapeuta non è in grado di conoscere, riconoscere, prevenire o comunque gestire le proprie vulnerabilità, la responsabilità è sua: ma la colpa spesso è di chi lo ha formato” (Novellino, 2017, pag. 65). Possiamo definire il setting formativo, così concepito, un setting iatrogeno, perché si basa su violazioni del setting, terapeutico e/o formativo, riproducendo una situazione psicologica di abuso di potere. Tali violazioni sono quindi l’effetto di bisogni narcisistici del terapeuta/didatta non elaborati che possono dare avvio a giochi psicologici se non a vere e proprie situazioni di sfruttamento. Qui di seguito alcuni degli effetti iatrogeni di tali violazioni negli allievi:
– Mancanza di fiducia nel modello teorico e/o nella professione;
– Mancanza di fiducia nella possibilità di cambiare;
– Mancanza di fiducia nelle possibilità di affermarsi professionalmente, quindi scarso investimento nell’attività professionale, desiderio di cambiare professione o interruzione della stessa;
– Autosvalutazione, bassa autostima;
– Difficoltà relazionali, scarso contatto con i colleghi, tendenza all’isolamento;
– Angoscia di morte;
– Scarsa protezione nei confronti di sé stessi;
– Difficoltà a definirsi personalmente e professionalmente;
– Accelerazione del finale previsto dal copione psicologico.

Per questi motivi è necessario che gli allievi svolgano la psicoterapia con terapeuti che non siano condizionati e/o condizionabili dall’istituto formativo. L’orientamento attuale è quello di lasciare l’allievo libero di rivolgersi al terapeuta che desidera, sempre dello stesso modello teorico, preferibilmente senza rapporti professionali con l’istituto di formazione. La stessa dinamica si rintraccia nella dimensione teorico-tecnica, soprattutto laddove i criteri di valutazione non sono esplicitati, quindi oggettivi e condivisi, ma centrati sull’autorevolezza del didatta. Se la mia evoluzione professionale è condizionata dal parere del didatta io tenterò di intuire ciò che lui vuol sapere, quindi mi adatterò. Lo stesso Berne ci ha insegnato che il Bambino, per ottenere carezze, si adopererà con il suo Piccolo Professore, sforzandosi di intuire quali sono quei comportamenti che probabilmente saranno rinforzati dal contesto. Appare quindi necessaria una riflessione sulla gestione della leadership degli istituti di formazione dei futuri psicoterapeuti.

2. Effetti di una leadership organizzata narcisisticamente: imago di gruppo Scissa e il fenomeno del capro espiatorio.

“Uno dei compiti più importanti dei leader consiste nel prendere coscienza dei bisogni emotivi dei collaboratori e prendersene cura. I leader ispirati da un narcisismo eccessivo in genere non si curano dei legittimi desideri dei collaboratori e approfittano della loro lealtà.”   (De Vries, 1995, pag. 41)

Se la iatrogenicità della formazione è espressione della violazione del setting, essa riguarda inevitabilmente la gestione della leadership che realizza tale violazione. I leader degli istituti formativi, nella gestione dell’attività organizzativa, non possono non essere condizionati dal loro copione psicologico o dalle loro caratteristiche di personalità; “Le organizzazioni…tendono a riflettere le personalità dei propri capi.” (Cornell, 2016). In letteratura è stato evidenziato che il leader ha spesso bisogni narcisistici non elaborati, che soddisfa attraverso il gruppo. De Vries (1999) sostiene che la motivazione dei leader è di tipo controfobico “Molti controagiscono sentimenti di debole autostima, di inferiorità e di impotenza tramite l’iperattività e il controllo eccessivo, trasformando così la passività in attività.” (pag 21). Il Leader sembra dover padroneggiare una bassa autostima insieme a sentimenti di inferiorità e di impotenza. Le ricerche hanno messo in risalto che il motivo per assumere una leadership, e diventare imprenditori, è spesso connesso a esperienze di perdita e di sofferenza (De Vries, 1999). Essi temono costantemente di fallire e di essere rifiutati. La loro vita è una pista di montagne russe dove successi e insuccessi si alternano senza posa. In sintesi, il leader ha un copione basato su arcaici bisogni di riconoscimento non elaborati, e usa l’organizzazione per metterlo in scena. Le riflessioni sul tema mi hanno condotto a ipotizzare una dinamica relazionale tra leader e gruppo che è l’espressione di ciò che ho denominato Imago di Gruppo Scissa. Se assumessimo come vero che il leader abbia un’organizzazione narcisistica (2) di personalità, egli opererebbe a partire da una scissione tra il sé grandioso, il G1+, e il Sé svalutato, il B1- (Novellino, 1998). Affinché il leader non entri in contatto con l’immagine di sé svalutata è necessario mantenere scisse la parte grandiosa e la parte svalutata; tale scissione è sostenuta dall’idealizzazione che riceve dagli allievi, membri del gruppo di formazione (Spagnuolo, 2015) nonché dalla svalutazione del proprio Bambino proiettato sull’altro. La sua imago di gruppo così configurata sarà sempre provvisoria e scissa: una imago di gruppo idealizzata e una imago di gruppo svalutata a causa della dissociazione (3) e delle “[…] difese reattive alla potenziale angoscia, che […] attualizzano meccanismi difensivi arcaici di regressione: proiezione, introiezione, scissione che danno luogo ad assunti di gruppo predominanti. Sappiamo che tali meccanismi difensivi sono molto simili a quelli presenti nei disturbi di personalità borderline e narcisistica.” (Spagnuolo, 2015).

Il leader indurrà il gruppo a vivere una realtà dissociata in cui coesisteranno due livelli:

  • quello manifesto, diremmo noi sociale, nel quale il leader vivrà il suo sé grandioso (il potente ed esperto didatta) in relazione a un gruppo adorante nei suoi confronti (gli allievi che pendono dalle labbra del potente didatta nella speranza di ottenere, grazie alla sua presenza, i sacri doni taumaturgici) (G1+/B1+);
  • quello latente, il livello psicologico, nel quale il Bambino del leader pieno di vergogna, umiliato e bisognoso di riconoscimento, B1-, è proiettato sul gruppo, mentre egli si identifica inconsciamente con il Persecutore, G1-, un Genitore Orco/Strega. Il gruppo vivrà la polarità sentendosi infatti inadeguato, incapace e pieno di vergogna; i membri saranno così incoraggiati a rimanere nel proprio copione psicologico.

È a causa del fenomeno dell’Imago di gruppo scissa che il processo di accomodamento della Imago di Gruppo (provvisoria, primariamente adattata, operativa, secondariamente adattata) è compromesso bloccandosi alle prime due fasi. La Clarkson (1991), ha esaminato l’effetto dei comportamenti, costruttivi e distruttivi del leader, nelle diverse fasi del processo di accomodamento dell’imago di gruppo; in particolare evidenzia come nelle prime due fasi, tra i comportamenti distruttivi emergono: la mancanza di strutturazione del tempo, il sadismo nascosto, l’eccessivo autoritarismo e la ricerca del capro espiatorio; un membro del gruppo diviene il bersaglio dell’aggressività del leader. Il leader dovrebbe invece, in queste prime fasi, fornire struttura, definire le regole, facilitare la conoscenza del gruppo, costruire un ambiente dove si respira okness e accettare le critiche senza sentirsi minacciato. Il fenomeno dell’imago di gruppo scissa può esitare quindi nella dinamica relazionale di gruppo denominata capro espiatorio, un gioco psicologico, con uno schema Persecutore/Vittima, nel quale il ruolo di persecutore è assunto dal Leader e quello di Vittima dall’allievo. Il leader assume il ruolo della propria rappresentazione interna del proprio Genitore/Persecutore proiettando la propria parte Bambina/Vittima sull’allievo, così come l’allievo rivivrà il proprio ruolo di Vittima proiettando sul leader il proprio Genitore/Persecutore. Entrambe le parti, leader/allievo, co-costruiscono l’antico dramma. È probabile che il capro espiatorio sia il membro del gruppo che possiede un’affinità psicologica con il leader; egli ha assunto psicologicamente il ruolo copionale di proteggere il gruppo dall’aggressività del leader (Freud, 1975) attirandola su di sé, dando voce al disagio della parte Bambina dei membri del gruppo. Questo fu probabilmente il ruolo che egli assunse all’interno del gruppo familiare, nella propria infanzia; così come è probabile che lo stesso leader abbia assunto, nella propria infanzia, un ruolo simile a quello dell’allievo e che oggi, nel ruolo di leader, egli abbia la possibilità di ribaltare l’antica posizione di subalternità. In queste dinamiche relazionali, allievo/didatta, se la responsabilità psicologica è di entrambi, la responsabilità professionale è del leader (Novellino, 2017). Il fenomeno della imago di gruppo scissa ci mostra la fissazione relazionale del leader alla dinamica P/V, tra il leader e il gruppo e/o uno dei membri del gruppo. Esempi concreti di queste forme di leadership possiamo rintracciarle in quelle organizzazioni formative dove, ad esempio, il team dei didatti, come effetto di un prolungato iperadattamento, si ribella al leader, rivendicando così una propria autonomia e viene letteralmente “fatto fuori” e reso oggetto di vere e proprie persecuzioni da parte dello stesso. In un recente articolo un collega evidenzia come il membro del gruppo che si ribella al leader potrebbe porre al gruppo una prospettiva che potrebbe far evolvere il gruppo invece spesso egli assume la funzione di accrescere la coesione del gruppo assumendo su di sé l’aggressività del gruppo (Zivkovic, 2023). Un leader che vede decimato il proprio team di didatti, che ha sfruttato per anni, per esempio non remunerandoli adeguatamente, e talvolta intere classi di formazione, senza interrogarsi sulla propria partecipazione a tale processo relazionale, è un leader con una evidente organizzazione narcisistica di personalità. È come se ci trovassimo dinanzi al padre dell’orda di cui parla Freud. Egli si pone nella posizione: io sono Ok-tu non sei ok. In alcuni casi ritengo che ci troviamo dinanzi a forme di sadismo ben razionalizzate, quelle forme che Kernberg (Kernberg O. F., 1992) definisce narcisismo maligno. Il leader è colui che desidera ed usa il potere per gestire ed elaborare i propri conflitti infantili ed emergere così da una condizione di subalternità. Questa modalità relazionale può essere definita perversa perché tesa ad usare gli altri al fine di soddisfare i propri bisogni, deformando, attraverso processi intrapsichici e relazionali, l’uso degli oggetti della realtà condivisa. Quale possibile gioco psicologico all’interno dell’esperienza formativa tra didatta e allievo? Che cosa accadrà agli allievi?

La relazione terapeuta/didatta-Paziente/allievo: un gioco psicologico

“E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto?
Si.
E cosa volevi?
Poter dire di essere amato, sentirmi amato sulla terra.”.
(R. Carver, 2015)

Abbiamo osservato come la violazione del setting sia la causa, e anche la manifestazione, di un doppio livello relazionale, sociale e psicologico, agito e non elaborato, che inevitabilmente si traduce in un gioco psicologico. In un contesto dove spesso “non è possibile dire”, il gioco psicologico diviene l’unico modo per poter comunicare. I giochi psicologici sono enactement: “i giochi e gli enactement riguardano elementi non verbali, interpersonali, e inconsci del processo terapeutico…i giochi possono comunicare significati che non possono essere espressi a parole” (Stuthridge, 2015). Ho ipotizzato che il gioco psicologico formativo di base potrebbe essere così costituito da:

  • un contratto sociale A-A, il contratto formativo/terapeutico:
    • Didatta: io sono qui per formarti come psicoterapeuta e per prendermi cura di te aiutandoti a liberarti dal tuo copione psicologico;
    • Allievo: io sono qui perché ho bisogno di te per diventare un professionista e un essere umano autonomo, quindi per elaborare e liberarmi dagli esiti del mio copione psicologico;
  • un contratto psicologico G-B:
    • Didatta: io ho bisogno di te per soddisfare il mio bisogno di sentirmi speciale, amato, importante, capace e difendermi così dall’arcaico vissuto di umiliazione, colpa, vergogna e impotenza;
    • Allievo: io ti aiuterò sia a non contattare i tuoi vissuti arcaici quindi a farti sentire speciale, il migliore! In cambio tu mi sosterrai, prendendoti cura di me, per farmi diventare potente come te e così liberarmi da questo vissuto di impotenza, umiliazione, vergogna. A tal fine mi adatterò alle tue richieste! Sopporterò tutto per te! Ma se dovessi deludermi anche tu allora mi isolerò, di deprimerò o mi arrabbierò, te la farò pagare!

Alla luce delle riflessioni teoriche appena descritte ho ipotizzato che il gioco psicologico formativo di base potrebbe essere così costituito da:

  • un gancio, cioè la promessa da parte del didatta di offrire quella cura che non si è ricevuti nell’infanzia;
  • e un l’anello, l’arcaico bisogno insoddisfatto dell’allievo, sia di riconoscimento che di presa in carico da parte di un adulto;
  • la Risposta è rappresentata da tutte le transazioni sociali e ulteriori tra didatta e allievo;
  • il colpo di scena, con il momento di confusione, si profila quando al termine del percorso formativo quando l’allievo farà i conti con la realtà e il Bambino sperimenterà che il bisogno tanto atteso non sarà più soddisfatto. Questo gioco di solito si attiva se tra allievo e didatta ci sono state delle violazioni del setting. Questo è ciò che accade nella fase del gioco psicologico denominata Risposta: esempi di tali violazioni sono, immaginare una collaborazione professionale successiva, una relazione sessuale tra didatta/terapeuta e allievo/paziente. Questi sono alcuni esempi che mostrano il fatto che la relazione tra allievo e didatta non si mantiene dentro i confini contrattuali ma li travalica.
  • Il tornaconto di copione di entrambi, didatta e allievo, è costituito dalla reciproca conferma della non okness, con la differenza che il leader probabilmente negherà i propri vissuti assumendo una postura Genitoriale difensiva e l’allievo si ritroverà proiettivamente dinanzi a un Genitore che non ha visto tutti gli sforzi che lui ha fatto per ottenere il suo riconoscimento quindi si risentirà deluso, frustrato e arrabbiato e procederà “come da copione”. A ben vedere noi possiamo osservare in questa dinamica come sia il didatta sia l’allievo stanno rivivendo le due facce dalla medesima dinamica. L’allievo vive il vissuto arcaico, il polo Bambino, e il didatta vive la difesa dal vissuto arcaico, nel ruolo del Genitore; la differenza tra allievo e didatta sta nel fatto che è responsabilità del terapeuta/didatta riconoscere il gioco e aiutare l’allievo, questo è il suo compito come da contratto. Novellino (2012) ha evidenziato come le violazioni di setting siano da considerare dei veri e propri abusi che rappresentano un errore etico ma, in quanto psicoterapeuti, questi rappresentano anche un errore tecnico: “Se uno psicoterapeuta non è in grado di conoscere, riconoscere, prevenire o comunque gestire le proprie vulnerabilità, la responsabilità è sua: ma la colpa spesso è di chi lo ha formato” (Novellino, 2017, pag. 65).

Ecco perché possiamo dire che, quando ciò accade, si evidenzia la dimensione paradossale della formazione, essa collude con il copione psicologico dell’allievo rinforzandolo. Per Berne, il terapeuta che cade nei giochi psicologici commette un errore grave ed ha bisogno di andare in analisi e/o fare formazione, in accordo al pensiero dell’epoca. Per il nostro Eumero i giochi sono unilaterali, coinvolgono solo il paziente; il terapeuta competente dovrebbe essere consapevole sia della provocazione del cliente che della propria esperienza controtransferale. Pare che sia proprio la vergogna e il narcisismo dei terapeuti, e dei didatti, ad aver reso difficile parlare degli enactement reciproci, quindi della propria partecipazione ai giochi psicologici; credo che possa essere utile invertire la rotta. Un gioco psicologico che evidenzi la iatrogenicità della formazione, è quello descritto da Kernberg (2018): il Grande Analista Didatta e il Grande Allievo.

Kernberg sostiene che l’identità dell’allievo è minacciata dal suo narcisismo irrisolto. Tale fenomeno accade quando il terapeuta/didatta (in questo caso lo psicoterapeuta è anche un didatta della scuola di formazione) si crogiola nell’idealizzazione dell’allievo. L’allievo avidamente incorpora la crescita del suo analista didatta, parallelamente al bramoso assorbimento di una conoscenza intellettuale. Questo fenomeno spesso non è rivelato, perché l’allievo lo vive dentro di sé e il terapeuta non se ne cura o lo interpreta come un normale e fisiologico processo di idealizzazione.

L’identificazione narcisistica di un candidato con il suo analista, e la pseudo-maturità che accompagna la grandiosità nascosta nella personalità narcisistica, possono essere scambiati per una maturità adeguata. È nella supervisione che spesso emerge l’incapacità dell’allievo di imparare dal lavoro clinico e dalla supervisione o dalle letture. Gli effetti a lungo termine della patologia narcisista irrisolta possono così minacciare l’identità del terapeuta. L’insight autentico, cioè una combinazione di consapevolezza cognitiva ed emotiva e l’interesse verso sé stessi e i propri pazienti, sono il nucleo dell’identità professionale dello psicoterapeuta. Essere capace di avere insight protegge il terapeuta dall’invidia per ciò che lui non ha scoperto, e facilita il dispiegamento totale della capacità di comprensione e contenimento espressa dal processo interpretativo. L’aggressività non riconosciuta e non elaborata da parte del terapeuta/didatta narcisista (4), impedisce all’allievo di riconoscere ed elaborare la sua aggressività e di incanalarla nella costruzione della propria identità professionale e personale. Si crea così una formazione difensiva: grande analista didatta – grande allievo. L’allievo quindi, anziché utilizzare la sua aggressività in maniera costruttiva, analizzandola all’interno del setting terapeutico, la proietterà verso l’istituzione formativa, rendendo più complesso lo sviluppo dell’appartenenza quindi della sua identità. Per arrivare ad avere una consapevolezza più realistica di sé e costruire così un’autostima fondata sulla propria attività autonoma, l’allievo avrà bisogno di elaborare quest’esperienza collusiva. Quando l’esperienza formativa si concluderà e/o quando la promessa del terapeuta/didatta sarà disattesa, ci si avvierà al finale del gioco psicologico. Ecco alcuni dei possibili esiti:

  • la rabbia è agita e l’allievo/paziente molla il percorso e interrompe la relazione con il terapeuta/didatta, senza la possibilità di elaborare i vissuti;
  • l’allievo dà avvio ad azioni, anche di natura legale, nei confronti del terapeuta/didatta;
  • l’allievo compie scelte molto rischiose per la sua vita in ambito personale e professionale;
  • l’allievo converte i vissuti non elaborati in somatizzazioni;
  • l’allievo ripiega su forme di cura olistiche, più vicine, nella modalità Bambino, alla natura, come a ricercare un contatto autentico che non riesce a stabilire con gli esseri umani dai quali si è sentito tradito;
  • l’allievo abbandona la professione o perde fiducia in essa.

L’allievo che ha vissuto in ambienti traumatici è probabile che utilizzi il meccanismo di identificazione con l’aggressore, L’allievo desidera affidarsi e potrebbe ritrovarsi in una situazione relazionale simile a quella infantile nella quale si iperadatta al terapeuta/didatta che a motivo di quanto descritto assume il ruolo di Persecutore: “I bambini si sentono indifesi fisicamente e moralmente, la loro personalità è ancora troppo debole per poter protestare, sia pure mentalmente; la forza prepotente e l’autorità degli adulti li ammutolisce, spesso toglie loro la facoltà di pensare. Ma questa stessa paura, quando raggiunge il culmine, li costringe automaticamente a sottomettersi alla volontà dell’aggressore, a indovinare tutti i desideri, a obbedirgli ciecamente, a identificarsi completamente con lui. Con l’identificazione, o meglio con l’introiezione dell’aggressore, quest’ultimo scompare come realtà esterna e diventa intrapsichico; ma tutto ciò che è intrapsichico soggiace, in uno stato simile al sogno come è appunto la trance traumatica, al processo primario…” (Ferenczi, 2002, pag. 96). Il bambino che deve prioritariamente occuparsi di soddisfare il proprio bisogno di sicurezza e riconoscimento, è sottoposto a uno sforzo psichico notevole; egli deve iperattivare l’Adulto se desidera sopravvivere e a tal scopo deve usare tutte le sue risorse sia cognitive che emotive, “Viene da pensare a quei frutti che la beccata di un uccello ha fatto maturare troppo in fretta e reso troppo dolci…” (Ferenczi, 2002, pag. 98).

3. Descrizione di un caso clinico

Si noti che è il processo di gruppo e non l’attività di gruppo a portare all’accomodamento.
(Berne,1963, pag. 214)

 

3.1. Il gioco psicologico didatta/allievo
3.1.1. L’arrivo di Jeder.

Jeder (5) è una collega che si presentò al mio studio in preda ad incubi densi di angoscia di morte e ideazione suicidaria. Jeder lega questa sintomatologia all’aver rimandato l’esame finale della scuola di psicoterapia da diversi anni, sei oltre i quattro di formazione previsti dal M.I.U.R., a suo dire per la severità del didatta circa il suo operato. Jeder è una delle poche allieve rimaste legate alla scuola, se non l’unica, il resto dei suoi colleghi, membri del gruppo di formazione, ha interrotto i rapporticon la scuola di formazione rivolgendosi ad altre scuole di formazione al fine di sostenere l’esame finale del diploma in psicoterapia, solo uno sparuto numero di membri del gruppo ha conseguito il diploma nei canonici quattro anni.
Il quadro clinico presentava:

  • Intensa ansia e angoscia di morte;
  • Incapacità a terminare la scuola di specializzazione in psicoterapia, da sei anni oltre i quattro previsti;
  • difficoltà a gestire il confine tra sé e gli altri, manifesta paura di essere criticata, evitamento le relazioni affettive, tendenza a essere molto accogliente e disponibile al fine di evitare i conflitti;
  • la relazione con il partner era insoddisfacente pur in presenza di un legame affettivo rassicurante;
  • si sente in colpa nei confronti della figlia, teme di non dedicarle il tempo adeguato evidenziando così un conflitto tra il suo ruolo genitoriale e quello professionale;
  • si sente poco competente in ambito professionale, manifestando una bassa autostima a causa di una corrispondente immagine di sé svalutata tanto da pensare di cambiare professione;
  • relazioni familiari conflittuali caratterizzate da relazioni invischianti alle quali si iperadatta, manifestando la difficoltà a porre i confini che ritiene necessari;
  • significativo aumento di peso negli ultimi anni;
  • scarso desiderio sessuale.

In termini di Triangolo Drammatico Jeder sembra essere intrappolata nel ruolo di Vittima dal quale non riesce a liberarsi, come vorrebbe, le angosce di morte appaiono come la manifestazione dell’impossibilità di potersi liberare dal Persecutore, la fuga è l’unica possibilità prevista dal copione.
Jeder è una donna intelligente e intuitiva ed appare evidente come i conflitti interni le impediscano di utilizzare appieno le sue capacità e le sue risorse.

3.1.2. La dinamica tra Jeder e il Didatta.

Il bisogno di Jeder è il seguente: lei vorrebbe completare il caso clinico, per ottenere l’imprimatur del didatta, nonché direttore della scuola di formazione, e così accedere all’esame finale al fine di ottenere il diploma in psicoterapia e poter esercitare la professione di psicoterapeuta appieno secondo la normativa italiana. Il problema è che Jeder non riesce a ottenere l’approvazione dal suo didatta per accedere all’esame finale. La tesi è che tale problema sia causato da un insieme di cause che essenzialmente si condensano, dal punto di vista psicologico, in una dinamica collusiva, quindi un gioco psicologico tra allieva/didatta, di cui i membri sono inconsapevoli. Per comprendere tale dinamica abbiamo delle informazioni sui comportamenti del didatta, e, per l’allieva, abbiamo informazioni anche sulla sua psicodinamica. Sappiamo che il gruppo di formazione si è sfaldato, la maggior parte dei membri del gruppo sono andati via a diplomarsi presso altri istituti formativi, i didatti hanno interrotto la collaborazione con il leader, i membri del gruppo si sentivano intimoriti dal leader a tal punto che temevano di parlare per paura di essere umiliati, non esisteva uno spazio per la riflessione sui processi emotivi del gruppo, il leader ha dichiarato di aver mai svolto slot di sedute con differenti terapeuti al sol scopo di comprendere come si lavorava nei differenti modelli teorici. Inoltre il leader è impegnato nella costruzione di un suo modello teorico non ancora definito. La dinamica allieva/didatta, dopo i 4 anni canonici, si basava sugli incontri di supervisione del caso clinico ricevendo spesso da parte del didatta: una valutazione negativa sul caso, quindi conseguente vissuto di umiliazione, senso di impotenza e di rabbia. Ciò si tramutava in un abbassamento dell’autostima e in una regressione del funzionamento mentale. Il didatta quando osservava l’accrescersi della regressione, proponeva all’allieva delle sedute ad hoc al fine di ridurre il suo disagio psicologico.
Uno dei motivi oggettivi per i quali sembra che Jeder vivesse come critica le valutazioni negative del didatta era legato all’assenza di criteri di valutazione esplicitati, ciò non era possibile a causa del fatto che il didatta stava elaborando un nuovo modello teorico, quindi i criteri di valutazione mutavano parallelamente al progressivo sviluppo del modello teorico. Jeder viveva uno stato di costante paura di sbagliare, lei cercava di intuire cosa si aspettasse il didatta ma puntualmente riceveva critiche e sperimentava umiliazione, confusione, vergogna, sentimento di inadeguatezza, paura. Transferalmente Jeder proiettava sul leader la madre della sua infanzia, imprevedibile e violenta che la criticava e la umiliava, ma che amava e dalla quale avrebbe voluto sentirsi amata e desiderata. Il didatta anziché chiedersi quale dinamica fosse in corso, svalutando il livello transferale e controtransferale, impedisce l’evoluzione formativa e professionale dell’allieva. Infatti dopo tre anni, oltre i 4 previsti dal MIUR, Jeder, stremata dal reiterarsi di questa dinamica, dirada gli incontri di supervisione clinica e li interrompe momentaneamente con un evidente danno per la sua carriera professionale e per il suo sviluppo personale. Dopo un lungo periodo Jeder ritrova l’entusiasmo per la professione e il desiderio di completare il percorso formativo, riprende i contatti con il didatta chiedendo di cambiare sponsor, viste le difficoltà incontrate precedentemente con lui, ma tale richiesta è rifiutata. Ciò che appare significativo da un modello teorico che si professa relazionale è che non si costruisce uno spazio per poter parlare di cosa accade nella relazione.
Perché ci troviamo dinanzi a una leadership narcisista e iatrogena:

  • Jeder descrive il clima formativo come permeato dalla paura di sbagliare quindi di essere giudicati, l’emozione fondamentale è la paura dell’umiliazione dinanzi al potente e famoso didatta. Siamo dinanzi a una dinamica Persecutore/Vittima;
  • solo 3 membri del gruppo si diplomano conseguendo il titolo, tutti gli altri lasciano la scuola di formazione e l’unica a rimanere è Jeder; possiamo ipotizzare che i tre membri si diplomano per effetto di un eccessivo iperadattamento, ho avuto modo di conoscere uno dei membri del gruppo e mi ha riferito che è riuscito a diplomarsi grazie al suo iperadattamento al didatta, coerentemente al proprio copione di vita;
  • Jeder riferisce che il didatta, direttore della scuola di formazione, abbia affermato di non avere bisogno di psicoterapia personale, egli ne ha svolte diverse, per breve periodo, ma esclusivamente al fine di comprendere in che modo si lavori nei differenti modelli teorici, quindi a scopo didattico;
  • La maggior parte dei didatti, se non tutti, interrompono la collaborazione con il leader lasciando l’organizzazione formativa;

il gruppo era di fatto scisso tra una parte svalutata, costituita dagli allievi, e una idealizzata, costituita dal leader. Il livello di svalutazione è tale che il gruppo si disgrega, in termini berniani i confini interni del gruppo sono stati distrutti dalla leadership accentratrice e autoritaria, infatti sia i didatti che i membri del gruppo di formazione lasciano la scuola di formazione; è come se una forza potente avesse reso impossibile alle persone presenti di rimanere al suo interno, immagino che il livello di svalutazione sia stato tale da rendere soffocante, oltre che umiliante, rimanervi. Sembra di trovarsi dinanzi a un leader, socialmente Persecutorio ma psicologicamente Bambino, il Bambino tiranno, che agisce in base alla convinzione che tutti siano lì per soddisfare i suoi bisogni. Ritengo che quando i confini interni sono violati non esiste la possibilità di costruire dei ruoli definiti che invece sono proprio definiti dalla presenza del confine interno tra leader e membri. lo spazio del gruppo diventa tutto del leader, sia in senso verticale che orizzontale. È come se in una casa si abbattessero tutti muri e nessuno avesse più uno spazio privato, tutto lo spazio è del leader, i membri diventano suoi prolungamenti. Dinanzi a questi fenomeni il didatta non ha svolto nessun incontro, né di gruppo né individuale, per comprendere il motivo della difficoltà degli allievi e dei suoi didatti. Non si è preso cura della difficoltà dei suoi allievi ad accedere all’esame finale, d’altronde la valutazione formativa era legata non a criteri oggettivi ma alla soggettività del didatta. Appare evidente come il didatta usi gli allievi per elaborare il suo modello teorico quindi per soddisfare i propri bisogni narcisistici. Svalutare sia le proprie possibili implicazioni nella dinamica regressiva sia il fatto che l’allieva da 6 anni, oltre i 4, fosse ancora all’interno dell’istituto, evidenzia, da parte del didatta, il porsi distante da una prospettiva relazionale, tra l’altro propugnata. Il bisogno personale del didatta può essere ascritto all’interno dei comportamenti definiti come violazione del setting che, nel caso in questione, si manifesta come un vero e proprio abuso di potere con connotazioni sadiche, vista l’incapacità del didatta di centrarsi sul bisogno dell’allieva e visti anche gli effetti regressivi sul funzionamento psichico dell’allieva e dell’intera organizzazione formativa. “L’obiettivo della psicoanalisi è risolvere il transfert; ciò che accade è che la formazione cerca di mantenere quel transfert che la psicoanalisi tenta di risolvere.” (Kernberg, 2018, pag.75)

3.1.3. La psicodinamica di Jeder.

Ritengo utile descrivere la dimensione psicologica dell’allieva al fine di comprendere la complessità della dinamica collusiva quindi iatrogena. In un processo relazionale entrambe le parti sono coinvolte, se del didatta possiamo solo basarci sui comportamenti dell’allieva possiamo sapere di più e così comprendere in che modo il dramma transferale viene rivissuto nella relazione con il didatta producendo, purtroppo, un rinforzo del copione. In questo caso, sinteticamente, il copione di Jeder prevede l’impossibilità di poter costruire una relazione all’interno della quale sentirsi protetta, quindi poter sperimentare dentro di sé la sensazione di sentirsi con l’altro, non più sola. Sembra che il dramma transferale di Jeder sia fondato sulla presenza, in termini di stati dell’Io, di una Bambina bisognosa di essere amata da mamma, ma aggredita e spaventata dalla stessa, e, dall’altra parte, da una Bambina che desiderava che papà la proteggesse dalla mamma “cattiva”. Papà invece, non solo non la proteggeva, ma la esponeva ai suoi racconti amorosi trattandola come una pari. Quello che appare qui significativo è che la Bambina, per poter sopravvivere in un ambiente inadeguato deve negare i propri bisogni e diventare lei il genitore dei suoi genitori al fine di poter mantenere la relazione con loro. Jeder ha sempre oscillato tra papà e mamma al fine di stare a galla senza potersi affidare pienamente né all’uno né all’altro. Dal punto di vista psicologico Jeder faceva, con il didatta, il suo “gioco psicologico”, ossia tentare di coinvolgere nel suo dramma transferale, il didatta. Probabilmente Jeder induceva psicologicamente il didatta a splittare dal ruolo di didatta a quello di terapeuta, diventando la bambina incapace e bisognosa, faceva sì che il didatta, offrendole dei colloqui clinici ad hoc, passasse dalla posizione di Persecutore a quella di Salvatore. Così mentre in supervisione il didatta era l’oggetto cattivo, la mamma sadica, che svaluta i suoi sforzi, che la critica, che la umilia, che la tiene a distanza; all’interno dei colloqui clinici viveva invece la relazione con il padre nel quale si sentiva più al sicuro ma al quale non poteva affidarsi perché la usava per i suoi bisogni narcisistici. In tal modo riviveva nella relazione con il didatta il suo antico dramma transferale e copionale. Di fatto Jeder non si è mai potuta affidare a un adulto e nemmeno ai terapeuti. Ma qual è il lato oscuro? Qual è la parte di Jeder che non appare evidente? È la sua rabbia nascosta che si manifesta nell’allontanarsi, nel mettere in discussione la relazione così come faceva sua madre, che quando non ne poteva più di lei, andava via e la lasciava da sola. Jeder abbandona momentaneamente la supervisione e non condivide con il didatta ciò che prova e ciò che pensa. È probabile che Jeder con questa strategia ottiene da una parte la possibilità di esprimere la rabbia, senza distruggere la relazione con l’altro, e dall’altra far sì che l’altro possa sentire oggi la sua arcaica paura di essere abbandonata dalla madre. Infatti Jeder sospende le supervisioni con il didatta per non distruggerlo, non agendo la sua intensa rabbia, e indirettamente proiettando su di lui la sua parte bambina spaventata. Il didatta se avesse ascoltato il suo controtransfert lo avrebbe potuto utilizzare per analizzare la dinamica collusiva e così sbloccare la difficoltà dell’allieva. Invece il didatta ha colluso mantenendo la lealtà di Jeder, e probabilmente anche la propria, al suo copione: “La lealtà a un’unità relazionale Bambino-Genitore intollerabile può essere, almeno in parte, il tentativo di evitare di cadere in quello che Grotstein (1994) chiama il buco nero dell’inesistenza, dell’assenza di significato e dell’assenza di relazioni.” (Little, 2006).

Conclusioni
“Io scrivo di persone a cui non tornano i conti”.
(R. Carver, 2015)

Al termine di questo lavoro sembra evidente come un leader, con bisogni narcisistici insoddisfatti, possa usare il gruppo per soddisfare i propri bisogni, innescando così giochi psicologici e violando il setting didattico/terapeutico. Si crea una situazione di abuso, espressione della violazione dei confini di gruppo di cui parla Berne. Quando, ad esempio, uno dei membri del gruppo si oppone al leader, e/o il leader lo aggredisce, siamo dinanzi a un sintomo, un disagio dell’intero gruppo, un disagio che non è possibile né dire, né sentire e né pensare ma solo agire, un enactement. Il fenomeno del capro espiatorio è un possibile esito dell’imago di gruppo scissa del leader perché, bloccando il processo di accomodamento dell’imago di gruppo, cioè bloccando la possibilità di poter pensare sui vissuti del gruppo, mostra quella dimensione diadica G/B, nella quale il Bambino del leader si è fissato. Egli rivive il suo dramma, non esser stato visto dal Genitore, e usa il gruppo, proiettando su di esso, i propri vissuti di umiliazione, impotenza, vergogna, colpa, per difendersene. Non è possibile accedere alla dimensione di gruppo e così sviluppare il sentimento di appartenenza. Il gruppo diviene il palcoscenico su cui metter in scena il proprio dramma al fine di provocare l’applauso del pubblico. A tal proposito ritengo, e non so se questo tema sia già stato trattato da altri all’interno della nostra comunità, che in questi casi, in termini di gruppo, siano lesi i confini interni del gruppo, cioè nel rapporto leader/membri.
In conclusione, voglio condividere con voi alcune considerazioni.

  1. È utile porre attenzione alle violazioni di setting costruendo delle procedure e degli spazi dove poterle gestire ed elaborarle. Credo sia necessario prendersi cura sia dei didatti che incorrono in violazioni del setting sia degli allievi che ne subiscono gli effetti, al fine di sostenere entrambi nell’elaborazione dei vissuti agiti e non elaborati.
  2. I criteri di valutazione formativa vanno esplicitati chiaramente; è preferibile un processo di valutazione che comprenda un’autovalutazione e una partecipazione dello stesso allievo al processo di valutazione affinché abbia consapevolezza dei propri processi interni. La valutazione è un processo dinamico, il cui scopo è la crescita consapevole dei partner nella relazione (Mazzetti, 2007).
  3. Soprattutto durante la formazione di base dei terapeuti, i fatidici 4 anni previsti dal M.I.U.R., in Italia, il ruolo di didatta va distinto da quello di terapeuta.
  4. Coerentemente con le indicazioni del nostro fondatore, Eric Berne, è necessario un percorso formativo specifico per la formazione dei leader di istituti di formazione di terapeuti; essere un buon terapeuta non implica essere un buon leader.
  5. Ripensare l’organizzazione formativa in modo tale da permettere agli allievi di sentirsi liberi di costruire attivamente il proprio percorso formativo, in linea con una visione educativa che abbia “un’alta considerazione per le abilità di ciascuno e una attitudine positiva verso l’autonomia e l’autodeterminazione. Il formatore è visto come un guida esperta e un leader che forma.” (Newton, 2003).
  6. Se da un lato non è bene valutare la psicoterapia dell’allievo, essa è però necessaria per raggiungere la propria autonomia, come liberazione dal proprio copione psicologico.
  7. La supervisione dovrebbe avere uno spazio sempre maggiore perché è soprattutto attraverso di essa che l’allievo incontra i propri limiti ed è così motivato a superarli; sia intraprendendo un percorso terapeutico sia maturando la competenza tecnica, ad esempio la gestione del controtransfert.
  8. Infine, è utile costruire un ambiente formativo nel quale ci sia spazio per apprendere gioiosamente, creativamente, nonché un atteggiamento formativo che infondi fiducia nell’allievo, che lo stimoli ad avere coraggio. Purtroppo, troppo spesso, gli istituti reprimono il desiderio di conoscenza degli allievi (Kernberg O. F., 2018).

La riflessione sulla iatrogenicità della formazione mette in luce una questione di fondo: la costruzione dell’identità dello psicoterapeuta. Sembra che la costruzione di un sistema di valori stabile e autonomo insieme alla capacità di poter essere responsabilmente curiosi, creativi, riflessivi, flessibili e affettuosi sia un obiettivo personale da raggiungere: un Adulto Integrato (Ethos, Logos e Pathos). Quando ciò non accade possiamo osservare un atteggiamento, nei confronti del proprio modello teorico di riferimento, svalutante, cinicamente relativista, messianico o dogmatico/paranoide. Mi auguro che tutti noi possiamo impegnarci a sostenere il desiderio di proseguire, nel faticoso ed entusiasmante processo di formazione professionale e di conoscenza di sé stessi, anche attraverso la costruzione di ambienti che ci permettano di contattare, ed esplorare, i nostri giardini segreti, al fine di attingere da essi i fili con cui tessere le nostre esistenze. A tal fine l’ipotesi dell’imago di gruppo, proposta in questo articolo, nell’intenzione di chi scrive, sarà seguita da un lavoro sulla sua implicazione clinica.

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Desidero ringraziare il dr. Michele Novellino per avermi sostenuto nel ritrovare, e mantenere, il timone verso la rotta concordata, sia nella mia vita personale che professionale. Ringrazio la mia collega Dina Labbrozzi per avermi accompagnato amorevolmente, nel decisivo rush finale, con la sua preziosa competenza didattica e culturale. Ringrazio altresì la collega Fabiola Santicchio per l’incoraggiamento nell’intraprendere questo progetto e per il supporto bibliografico; e la collega Alessandra Grassi, per avermi permesso di esplorare i miei pensieri e di ordinarli, come pezzi di un puzzle, permettendomi di sperimentare la gioia della scoperta. Ringrazio i colleghi del gruppo di supervisione romano, per il sostegno umano e professionale. Infine desidero ringraziare i miei didatti e i miei terapeuti precedenti per avermi accompagnato, così come hanno saputo fare; so che l’hanno fatto al meglio delle loro possibilità.

Raneri Antonino, psicologo-psicoterapeuta, PTSTA-P, www.antonioraneri.it, mail: info@antonioraneri.it.

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1. https://www.treccani.it/enciclopedia/iatrogeno – Torna Su ↑
2. Il narcisista utilizza l’aggressività per prendere l’oggetto, l’oggetto gli sfugge e lui ne ha bisogno, è un oggetto che lo fa godere, perché a quel livello evolutivo l’esperienza del bambino si organizza in base alla dicotomia gratificazione/frustrazione. La rabbia è legata alla frustrazione, ne è una conseguenza. La differenza tra un borderline e un narcisista dipende dal livello di aggressività che viene espresso dall’ambiente. Nel caso del narcisista l’aggressività è veicolata nello spostamento nel tempo della gratificazione, ne viene dato uno immediato ma parziale e il bambino viene illuso che se diventerà altro da sé sarà amato e ammirato. – Torna Su ↑
3. “La capacità della mente umana di limitare adattivamente la sua autoriflessività…la dissociazione diviene patologica nella misura in cui essa limita…la capacità di contenere e riflettere sui differenti stati della mente all’interno di un’esperienza unitaria di me-ness.3” (Bromberg, 2007). – Torna Su ↑
4. La clinica ci ha insegnato che il bambino gestisce il sentimento di umiliazione, quindi anche la paura di essere non amato, investendo nella costruzione del Sé Grandioso, di un ideale dell’Io. L’ideale dell’Io ha la funzione di motivare il soggetto, “Fai ancora meglio così domani ti amerò di più…, dove domani è il concetto eterno mai verificantesi”. (Novellino, 1991). – Torna Su ↑
5. Questo è il nome che ho dato alla mia paziente per favorire la comprensione del testo. – Torna Su ↑

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